1995 - 1998

Dalla mostra: “Totem e tabù”, Casa dei Carraresi, Treviso, 1998

Testi

Alessandra Zorzi ha scritto in biografia della sua esperienza di pilota. Di pilota d’aereo, dunque. Attribuendo, evidentemente, a questo aspetto della sua vita una importanza non secondaria anche per la pittura. Ho una simpatia istintiva per chi non lascia che il mondo della pittura termini dentro il muro della pittura, e tutto vi sia lì costretto, ammucchiato. Per chi si concede anche a sogni diversi, e anzi coltiva quei sogni come una sorgente ultimativa per il colore. Apparentemente lontana ma immodificabile, soltanto vera e lucente e miracolosa. Perché è più bello raccontare quello che nell’esserci scompare, e nella scomparsa e già essenza, resistenza. Già molte volte Alessandra Zorzi mi ha invitato a volare con lei, ma l’eccessiva distanza geografica che ci separa non mi permette di alzarmi il mattino, aprire la finestra, vedere il cielo azzurro e dire, si oggi e proprio il giorno giusto per volare. Preparare uno zaino e correre alla pista di decollo. Ci sarebbero quasi quattrocento chilometri da fare per arrivare a quella pista di decollo, e presumo di atterraggio. Un po’ troppi per pensare che nel frattempo la situazione meteo potrebbe cambiare, e io trovarmi a metà strada, tra Sommacampagna e Desenzano, a ipotizzare, al posto del volo, una gita sul

​lago di Garda. Così il mio volo con lei non e ancora avvenuto, e ho il forte sospetto che mai avverrà. Eppure, questo mi mette nella condizione di immaginare senza conoscere, di vedere senza aver visto. Il volo è una cosa senza fiato, da buttarsi a capofitto e non sentire il limite della distanza. Ho pensato che il volo è un grande vuoto da riempire, ma non una volta per sempre, altrimenti il volo, la seconda volta, già non avrebbe più senso. E’ una presenza tradotta in una virata, in un breve stallo, nella ripresa a salire. Quando però si torna a volare, non c’è più nulla di come era prima, e ancora, soltanto, un grande vuoto da riempire. E a tutto quel vuoto corrisponde, per antinomia, un grande pieno. La pittura di Alessandra Zorzi e completamente impregnata del senso del volo, l’idea dell’atterraggio, dell’ammaraggio quasi, perché dall’alto si ha più chiarezza della dispersione di noi, della nostra frantumazione e poi ostensione in un moto di circolarità perenne, che centrifuga i corpi come le verità. Lascio che siano altri ad analizzare la sovrabbondanza dei simboli, la loro resa in termini psicanalitici, e invece mi tengo stretto a questa decisione forte, alla quale tutto e sottomesso, di occupare in ogni modo, e in ogni angolo anche il più remoto, lo spazio. Come alla tersità del volo azzurro, del volo vuoto, non potesse succedere che un’orgiastica pienezza, la clamante ossessione di mascheramento e tatuaggio. Essere e vivere. E il compasso stilistico, e degli abbandoni, va da un massimo di contemporaneità, come potrebbero essere i graffitisti newyorchesi, fino al capo opposto del secolo, a incocciare quel nodo turbinoso e tempestoso che nel secondo decennio, brevemente, triturò insieme la poetica del Cubismo, dell’Espressionismo e del Futurismo. Fra tutti, forse Robert Delaunay e ancor di più Ludwig Meidner stanno quali precedenti sostanziali per questa pittura. Le visioni travolte, spezzate, che Meidner desunse, tra 1913 e 1914, dalle vedute con la Tour Eiffel che Delaunay dipinse due anni prima. Vedute e visioni apocalittiche, segmentate, frante, aguzze, tali da anticipare il dramma e l’orrore della Prima Guerra Mondiale ormai alle porte. Così, a volo d’uccello, quasi per un pierfrancescano singhiozzo, si vedono le scene convulse, mai ridenti e mai disperate, di Alessandra Zorzi. Quasi la prospettiva non esistesse più, o non fosse mai esistita. E anziché le distanze, ormai confuse, inattendibili, non visitabili, la tangenza irrisolta di uno sguardo e una lingua, un sesso e una gondola, un cannone e una Pietà. Spostamento continuo, spaesamento continuo, e sulla tela restano le stigmate del colore, l’abrasione folle di una storia che deve sempre ricominciare perché nessuna storia, effettivamente, è mai cominciata. La presenza di tutti diventa la presenza di nessuno, e l’occlusione dello spazio ritorna il vuoto dello spazio. Come un silenzio sovrumano si posasse su questo brusio sconclusionato, dove San Francesco sul giaciglio di morte e vicino alla donna con la tunica rossa. La ricchezza della narrazione, il suo barocco rintocco, lo sfolgorio di un fuoco che pare non avere termine: tutto questo incendio sembra d’improvviso bloccarsi, avere una tregua, e sopra questa pellicola, sopra tutti i suoi fotogrammi impazziti, cresce nuovamente la tersità del vuoto, l’assenza, il nulla. E Alessandra Zorzi potesse volare, finalmente planare, anche su queste sue storie, su queste formelle antelamiche otto secoli dopo. Dove non i mesi, ma i fiotti e i germogli di una vita trovarsi adesso dipanati, distesi sotto la luce d’invetriata della sera piagata. Luce di tramonto perenne, che solo talvolta s’alterna con una appena più turchina, scandagliata e più riflessa. Ma tutto impastato, il languore triturato e strascicato del tramonto, come il franato gusto dell’alba, dentro la fanghiglia sollevata del tempo. Il vuoto del volo, l’ossessione della vita, la cicatrice del tempo.

Si fatica a entrare nei densi tabernacoli in cui Alessandra Zorzi ha stipato il suo bailamme teratologico. Bestiari umani e zoologici si e ci confondono in un inestricabile continuum, in cui la singolare collezione di casi e circostanze di una surreale narrazione allegorica per figure trova una collocazione inquietante e tuttavia compositivamente plausibile e attraente. Si tratta di una sapiente e calcolata naïveté in parziale sintonia con quella cui in anni relativamente recenti ci hanno abituati le declinazioni, anche surrealisteggianti, e soprattutto italiane e tedesche, di un neo-primitivismo e di un neo-espressionismo provvisto di forte potere di fascinazione. Osservati attentamente, i tabernacoli di Alessandra rivelano la loro complessità: non si tratta più di confrontarsi con la perentorietà, anche un po’ teatrale dell’immagine, per quanto criptica, come accade nelle opere dei neo-espressionisti italiani, ma piuttosto con le minuzie descrittive, cui da secoli ci ha abituati una tradizione fiammingo-germanica: Hieronymus Bosch prima di tutto, poi Pieter Bruegel, ma anche Mathias Grünevald, per finire con Max Ernst, Max Beckmann e i loro discendenti più o meno indiretti, come Jorg Immendorf e A.R. Penck. Certo, fra 1’erasmiano Moriae encomium, l’alto simbolismo ermetico e realistico di Joseph Beuys, e la nuova pittura di qualche suo allievo dotato vi e uno scarto incommensurabile. Senza contare che, alle rappresentazioni di ciò che possibile non è, ha fornito il suo contributo pure l’ebreo russo Marc Chagall, ignorando i santuari dell’acculturazione pittorica occidentale. Vi è passata invece, in vari modi e misure, la rilettura espressionista o solo espressionisteggiante di italiani e tedeschi alle prese con il presente continuo dell’annichilimento post-modernista della storia. Ai fantasmi propri, che non sono pochi, Alessandra Zorzi aggiunge dunque quelli delle sue frequentazioni di ricettiva collezionista, virtuale e reale, di testi pittorici, cui sono ostici gli universi autonomi dell’astrazione. Nei quadri di Alessandra le citazioni sono le piu varie, ma omogeneizzate da un “connettivo” prossimo a quello che accorpa il “visibile” in una panoramica totale, colta durante un volo. Alessandra Zorzi, architetto di formazione, pilota aerei da turismo, esattamente come Carlo Mollino, cui tuttavia stavano a cuore altre forme di cimento creativo. Le circostanze topologiche, gli episodi narrativi, talvolta parodisticamente truculenti o garbatamente pornografici, le citazioni storiche: da Goya, da Giotto, da Picasso, le singolari metamorfosi, persino demoniache, zoofilia-che; l’esplicita dislocazione e ancora nominazione di tipologie pittoriche, ovvero di generi (paesaggi, vedute urbane, nature morte, ritratti, nudi) collezionistici e di richiami iconografici “alla maniera di”, alla fine delineano un territorio para-“cartoonistico” (viene fatto di pensare persino al grande Jacovitti) finto infantile, nel quale forse vengono esorcizzati i fantasmi privati, ma nel quale tuttavia vengono anche esperite (e probabilmente sommessamente celebrate) le virtù della pittura. I quadri di Alessandra Zorzi sono tavole divulgative di una cantastòrie singolare che dà vita a un enciclopedico Orbis pictus.

Le vie della pittura sono infinite: alcune si distendono rettilinee lungo il tracciato comodo delle mode dell’arte, altre s’intersecano con gli antichi percorsi della storia, altre ancora (e sono le più faticose) scorrono sotterranee per lungo tempo e poi affiorano, come fiumi carsici, improvvise alla luce. E’ questo il caso di Alessandra Zorzi. La sua pittura arriva da lontano, da un processo di affinamento durato anni, avvenuto in silenzio nello studio di via Crivelli: qui la pittrice ha maturato, con sicurezza di intuizioni successive, un linguaggio autonomo in cui le matrici sono ancora individuabili, ma ormai pienamente inserite in un nuovo contesto. Gli studi di architettura le hanno insegnato un approccio metodico con la superficie, una ripartizione degli spazi e una progettualità dell’opera: nelle tele della prima formazione era ben evidente quanto fosse importante il senso del disegno e l’impaginazione complessiva del quadro, molto spesso frutto di accurate ricerche grafiche. Ne risultava una pittura ancora pienamente inserita nella rappresentazione realistica del mondo esterno, ma risolta con una particolare attenzione a cogliere le forme, cercando di limitare i particolari descrittivi; in cui il colore si appoggiava plasticamente ai piani, ben definiti nella loro collocazione spaziale. Ma il colore contraddiceva in parte la funzione naturalistica, in quanto già si avvertiva una sensibilità portata a un cromatismo acceso, che nel suo caso poteva far pensare a una derivazione dalla lezione di Gino Rossi, dato che le riproduzioni dei quadri dell’artista trevigiano campeggiavano sparse per lo studio. Era quasi inevitabile in quel periodo collegare la sua ricerca alla matrice veneta, alla predisposizione (quasi genetica) per il colore, che da secoli contraddistingue i pittori di Venezia e dintorni: mi pareva che nello studio di Milano si fosse trasferita una parte della Marca Gioiosa e che il destino pittorico di Alessandra Zorzi si sarebbe direzionato verso un rinnovamento di una tradizione ormai consolidata. Ma le previsioni, in arte, valgono meno di quelle della Borsa. Le pareti dello studio si riempirono ben presto di strani dipinti che, a prima vista, sembravano la logica conseguenza dei precedenti; ma che a un esame più attento manifestavano una nuova volontà di narrare più che di descrivere: una sottile ironia serpeggiava maliziosa tra i ritratti, le nature morte e i paesaggi. Era come se un bizzarro folletto si fosse divertito a giocare con le cose, ad accostarle in modo improprio, a deformare le prospettive, prima cosi rigorose e ora invece allungate o ristrette. Ne risultava un mondo inquietante, il cui valore simbolico era evidente e faceva pensare all’affermazione di Munch: “Dipingo non quello che vedo, ma quello che ho visto”. Ma dove Alessandra aveva visto questo strano mondo? Nei suoi sogni, di certo, ma non era la semplice trascrizione di un fatto onirico: era la razionale presa di coscienza e volontà di organizzazione di una realtà diversa dalla consueta, ma non per questo meno vera. Su questa strada le tele si sono moltiplicate una dopo l’altra, in un processo ormai inarrestabile di affabulazione pittorica. II vaso di Pandora traboccava di mille storie, mille allusioni, invadendo tutta la superficie del quadro in un horror vacui tale da stravolgere la fisicità dei limiti della tela; non c’era più un alto e un basso, né un punto di vista privilegiato: ogni opera poteva esser vista da qualsiasi lato. Ma in questa moltiplicazione di situazioni la narrazione è totale (se così si può dire): è come una memoria collettiva, che conserva, ma non seleziona. Ne risulta una specie di torre di Babele in cui citazioni raffinate si mescolano a immagini volutamente grottesche, quasi un Internet figurativo su cui domina, però, un sarcasmo elegante e giocoso. E, paradossalmente, questo intricare diavoli e santi, bulli e pupe, sgorbi e capolavori, e davvero realistico.

Un groviglio di figure e di oggetti, di edifici e di automobili, di animali e di libri, di scheletri e di fiori, di santi e di demoni che si mescolano e si sovrappongono in un delirante marasma di immagini. E’ la babele della contemporaneità, dopo che le certezze si sono infrante e 1’armonia si e dissolta, ad andare in scena nei “teatrini” di Alessandra Zorzi; e a guardarli si possono provare sensazioni di paura e di attrazione. “II carattere complessivo del mondo – ha diagnosticato Nietzsche – è caos per tutta l’eternità.” II caos ha un suo fascino occulto, sinistro e seducente, come tutto ciò che è indecifrabile. Di fronte a queste rappresentazioni – cariche di significati, di simboli e di metafore -, qualcuno vorrebbe urlare per le ferite inferte dall’orrore, ma qualcun altro vorrebbe invece tuffarsi a capofitto nel marasma. Atteggiamenti che, in un gioco di riflessi speculari, appaiono con tutta evidenza nei dipinti. Vi sono figure sgomente che aprono la bocca urlando di raccapriccio, altre invece si lasciano andare a orgiastici piaceri, mentre incombe però la presenza di un sinistro figuro… In un gioco di rimandi e di citazioni potrebbe essere Jack lo Squartatore, cosi come le disinibite donnine potrebbero essere tante perverse Lulù dall’aspetto innocente. Senza intellettualismi o moralismi, Alessandra Zorzi ha capito lo spirito del moderno, un’epoca di precarietà e di incubi, di contraddizioni e di antinomie. E’ stato Baudelaire a sottolineare che “la modernità è il transitorio, il fuggitivo e il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile”. Nell’universo di un giallo fosforescente raffigurato o – meglio – rappresentato plasticamente da Alessandra Zorzi sono evocati vizi, degradi, metamorfosi, artifici e tentazioni. Rastrellando come un trovarobe avido di dettagli materiali di ogni genere, li ha miscelati con personaggi dalle sembianze stravolte e burattinesche. La sua è una narrazione pittorica con volti, gesti, movimenti, atmosfere e fantasmi onirici: un vorticoso racconto che ha il ritmo di uno spettacolo. Anche gli ingombranti oggetti, quelli da cui siamo circondati e che non vediamo più, recitano il ruolo di protagonisti. Sul palcoscenico, che potrebbe essere stato eretto sotto il tendone di un circo da una compagnia di teatranti amanti del Grand Guignol, le sue maschere sono li, nelle mani di un regista-demiurgo imprevedibile e pazzo. Quel demiurgo può esser chiamato caso, o destino, non ha importanza ma scompagina le regole e le abitudini creando imprevisti e imbrogli. Niente è certo, ma tutto e imprevedibile. Anche il tendone del circo, decorato di colori seducenti e invitanti, potrebbe crollare per un soffio di vento. Oppure incenerirsi e scomparire in un rogo di fuoco e di fumo. Oppure addirittura non esistere, poichè il confine fra la realtà e l’irrealtà e indefinito. Nello spettacolo a dominare sono l’antinomia e l’ambiguità. Un’antinomia radicale e assoluta, diventata una delle caratteristiche fondamentali della cultura odierna. Obbligatorio è il richiamo ad Artaud, diviso tra surrealismo ed espressionismo, autore de II teatro e il suo doppio. Sotto l’abito serioso della normalità, si nascondono pulsioni inconsce: i personaggi di Alessandra Zorzi sono i nipotini del rispettabile Dottor Jekyll di Stevenson, che durante la notte si trasforma in Mr Hyde, creatura dalle sembianze animalesche e dagli istinti malvagi. E infatti queste figure assumono aspetti ripugnanti con bocche vampiresche, nasi simili a proboscidi e orecchie suine. Metaforicamente è rappresentato il mostruoso come parte oscura e inespressa della personalità sdoppiata: mostri come prodotto della solitudine, dell’incomunicabilità ma soprattutto del riconoscimento dei loro impulsi segreti. Mostri senza nome, come quelli creati da Frankenstein, una pura macchia nera, condannata a deambulare alla ricerca di un conforto. “A volte consentivo ai miei pensieri liberi dal controllo della ragione – si legge nel romanzo di Mary Shelley – di vagabondare nelle alte sfere del Paradiso e osavo fantasticare di creature amabili e gentili, in grado di comprendere i miei sentimenti e di rallegrare la mia malinconia; i loro volti angelici emanavano sorrisi di conforto. Ma era tutto un sogno; nessuna Eva alleviava le mie sofferenze, ne condivideva i miei pensieri: ero solo. Ricordavo la supplica di Adamo al suo creatore. Ma dov’era il mio? Mi aveva abbandonato e lo maledicevo con il cuore pieno di rancore.” Muovendosi in un mondo dominate dall’arbitrarietà del caso, Alessandra Zorzi non precipita nella botola dell’angoscia e della tragicità. I suoi bislacchi “teatrini” sono rappresentazioni tragicomiche, dove gli aspetti grotteschi – proprio come nei baracconi dell’Orrore – hanno il sopravvento. I titoli di alcune opere (ad esempio La necrofilia per i più piccini, o Pensieri di taglia insolita, o La saggezza sgominata) sono certamente provocatori. Una provocazione dissacrante anche nei confronti delle assurdità di un mondo scheggiato e immerso nelle tenebre dell’ignoto. Si direbbe anzi che lo scompiglio assuma un aspetto burlesco e beffardo: in Fuga dalla memoria, una delle opere più emblematiche, un personaggio di assoluta bruttezza ha nel cranio un foro dal quale salta fuori, simile a un giocattolo a molla, una testa dai capelli dritti che fa gli sberleffi con la lingua. Alessandra Zorzi reagisce con una risata al crepuscolo degli assoluti e all’insensatezza dell’esistenza.

La contaminatio, come diceva già vent’anni fa Ernest Gombrich, è la condizione irreversibile del nostro tempo. Contaminatio, cioè accumulazione, in senso materiale come immateriale, di elementi i più disparati e disomogenei. Alessandra Zorzi, che oltretutto è architetto, ben lo sa. Nei suoi quadri si combinano modalità che parrebbero inconciliabili: il colto e il primitivo, il sofisticato e il popolare, l’istintivo e il programmato; quasi vorremmo dire la bestia e lo spirito. Tutto entra convulsamente nello spazio, con una sorta di horror vacui che è (anche qui in antinomia) medievale e attualissimo. Il jazz e il rock, il pop e il trash: una sorta di Caos nietzschiano in cui “danzano pazze le stelle”; quasi uno stordimento che coinvolge chi osserva e che, nel contempo, diviene riflesso di un ambiente urbano in cui affondiamo quotidianamente, con disagio e con voluttà. Può esserci, in questa dimensione esasperata, uno spiraglio? Anzitutto per capire la pittura di Alessandra Zorzi (ma non solo la sua) occorre in qualche modo ‘decostruire’ la nostra vecchia cultura, eliminando le scorie di una concezione estetica di tipo crociano. Ora non regna più Apollo; regna Dioniso. Anzi, è proprio Apollo a essere scorticato dal redivivo Marsia nella gran sfida sul pentagramma. Ma è qui che la correzione ideologica va fatta. L’arte, diciamo pure la pittura, si avvicina alla scienza: mette l’occhio curioso sul microscopio elettronico per osservare la meravigliosa apparente disarmonia dei tessuti biologici esibiti dal vetrino. Che accade? Quel che credevamo Caos assume, impercettibilmente ma fatalmente, le vesti di un nuovo ordine. Siamo noi a non possedere gli strumenti per decifrare gli assetti istologici della materia. Ma sopravviene l’intuizione: quel sesto senso che deve avere l’artista come lo scienziato. È allora che la visione si capovolge: e tutto diviene perfettamente plausibile, coordinato, strutturato. A questo punto l’operazione condotta da Alessandra Zorzi diventa affascinante. Essa non solo rientra nei nuovi parametri della cultura d’oggi, ma svela i gangli più reconditi di una sensibilità sottesa, prensile e duttile, attenta alla captazione e all’assimilazione degli opposti apparenti. Il grottesco si tinge di ironia; il tragico diventa fiabesco; il giuoco non è più svagato; il caso nasconde una congruenza psichica. Certo, si tratta di un enorme puzzle, in cui l’occhio affonda senza pausa, avvinto dalla trama che si dipana da più parti, labirinticamente. Occorre ricordare certe pagine indimenticabili di Borges? Chi insegue il filo di Arianna non lo fa per uscire all’aperto, ma per addentrarsi sempre più nei meandri dell’inconscio. Ogni frammento è un rimando, un’allusione, un recupero di memoria. Esercizio di agilità mentale e insieme liberazione dello spirito; fuga verso l’Utopia. S’intenda: Alessandra Zorzi porta avanti la sua ‘decostruzione’ proprio per arrivare a una nuova e inedita ‘costruzione’. La discontinuità stilistica dei particolari si attenua; lo sguardo si abitua a una specie di compattamento, di reductio ad unum. Vogliamo chiamarlo stile? Il termine è forse eccessivo, ma rende. Proprio dall’estrema aleatorietà dei frattali deriva la tensione unitaria che porta (dovrà portare) alla definizione matematica del teorema. È qui, in questa direzione che si volge il ciclo pittorico di Alessandra Zorzi. Ancora una volta gli opposti puntano a toccarsi. Forse Apollo non lotta più con Dioniso: nella convulsione del nostro tempo, tra contaminazioni e accumulazioni appunto, l’ordine cibernetico sta per arrivare. Esso comporta una nuova definizione di bellezza; forse meno concettuale (meno idealistica) di quella tradizionale, certo più aderente ai fermenti plurimi dell’ambiente culturale in cui viviamo.

Fra tutti i tipi di comunicazione non verbale, il segno grafico e il colore sono da sempre quelli attraverso i quali ho più acutamente avvertito di riuscire a pormi e a propormi in relazione alle cose, sia appartenenti al reale che all’immaginario. La mia formazione universitaria è tuttavia da architetto, né ho frequentato scuole di pittura: mi considero dunque sostanzialmente un’autodidatta per quanto riguarda la preparazione tecnica, relativa soprattutto agli ultimi dieci anni, durante i quali ho lavorato quasi esclusivamente in questa direzione. Ritengo tuttavia che le esigenze espressive che mi hanno inevitabilmente portato verso la pittura, unitamente a un percorso di studio così autonomo, pur se per un verso più lungo e faticoso di quello codificato (soprattutto volendosi impadronire degli strumenti più tradizionali prima di accedere alla ricerca di un’identità attraverso il linguaggio), possano concedere una grande libertà espressiva, per certi versi simile a quella di un bambino che scopre sperimentalmente la magia del segno. Quando poi ho iniziato la ricerca di un modo e di un mondo di rappresentazione dove la comunicazione riguardasse il mio sentire e come volevo trasmetterlo, è istintivamente affiorato sulla punta del pennello tutto un universo espressionista legato a mille (credo facilmente identificabili) riferimenti: dai miti della prima infanzia (per incomparabile fortuna ancora in versione rigorosamente non disneyana) , Pinocchio, Peter, Alice, Dorothy…, a quelli di un percorso letterario e cinematografico ramificato e disordinato, non alieno da cedimenti e incursioni nel trash; sino alla pittura che più acutamente esprime la drammaticità e le emozioni: Giotto e Masaccio, Bruegel, naturalmente Bosch, e poi Goya più di ogni altro, Moreau e Redon, gli espressionisti tedeschi del periodo prebellico e Munch, poi Soutine, Ensor, Rouault, Ernst, sino a Bacon, De Kooning e Sutherland, senza dimenticare i sudamericani. Ma insieme l’ironia e la libertà di Picasso. E poi, per me un maestro, Altan, e naturalmente Disney, i fumetti americani di Linus anni Sessanta e anche però Alibella, il Sor Pampurio e il grande Rubino, per tornare alle suggestioni infantili. È un calderone? Ma anche i miei quadri lo sono.Ed è un calderone anche la fluida caoticità che stiamo vivendo di un’epoca di radicali e continue trasformazioni. Immagino che accada a chiunque tenti di trasferire sulla tela o sulla pagina o sullo spartito il suo sentire artistico di usare le parole e i frammenti di ciò che in qualche modo gorgoglia e ribolle, striscia e zampetta, ulula e ride, diverte e spaventa dentro di sé; non necessariamente nell’inconscio. Ma ciò di per sé non è pittura. O musica. O altra forma espressiva. La pittura è tale solo se e quando funzionano la composizione, il cromatismo e il dire insieme. E allora se un quadro “funziona”, funziona. Altrimenti semplicemente no. Proprio come una macchina. Così ad esempio a mio avviso “funzionavano” i quadri grandi, dove l’esplosione del caos debordava e si dilatava indefinitamente al di fuori della superficie dipinta: non funzionavano più invece i quadri più piccoli, là dove il tumulto veniva ingabbiato in spazi troppo ristretti. Dopo varie sperimentazioni ho trovato che i quadri piccoli ridotti in frammenti, parzialmente riconoscibili nelle loro componenti figurative, ma in parte indefiniti, davano origine a nuovi dipinti. In questi (poiché un frammento è come un frattale: per quanto piccolo suggerisce il molto, dando spazio all’immaginario) nuovamente la pittura si animava di vita propria. Queste sono naturalmente le mie percezioni, né debbo o voglio essere io a dire se i miei quadri “funzionano”. lo posso solo raccontare un percorso: in realtà è la pittura che mi ha portato all’espressione, e non il contrario, ma è il momento della comunicazione quello in cui si fonde ciò di cui si parla il lessico interiore con ciò con cui si rappresenta la pittura. Se quello di cui si parla resta diario, rimane un pezzo del sé raccontato, credo si possa dire che la pittura rimane illustrazione. Se ciò che si trasmette diviene invece un  riverbero dell’interiorità di ciascuno, una scoperta per lo spettatore di una parte di sé, un’emozione che si rispecchia, allora forse si è avverata, magari per un attimo forse in un solo quadro, la magia dell’arte. Io non so se vi sto riuscendo, spero di si naturalmente, e quel che mi piacerebbe suscitassero i miei quadri è qualcosa di simile a questa definizione che ho letto non so dove degli Haiku, le brevissime poesie giapponesi: “…gli Haiku, quelle piccole poesie che non sei ben sicuro di aver capito, ma di cui senti che loro, in qualche modo hanno capito te”.

« Giorni fa, sulla frequenza “Mondi Perduti” del Megamultiplex-Fire Globe 1088 (ove vivo), ho visto di uno strano ritrovamento. In un’area desertificata, dove una volta era l’insediamento chiamato “Città di Milano”, sono state rinvenute numerose tavolette coperte di bizzarri segni. Le tavole sono in un materiale detto tela; i segni sono tracciati con strumenti scomparsi: pennelli, colori a olio, gessi, matite.mHo visto le tavole allineate in un deposito dell’Archivio dei Mondi Perduti. Formavano una sequenza continua, ininterrotta, senza inizio e fine, come frammenti superstiti di un atlante, di un codice, di un palinsesto. Sono piene di segni spezzati, apparentemente senza senso, che crescono su se stessi a formare uno stranito deposito di storie. La disposizione in sequenza suggerisce una narrazione, la raffigurazione, la cronaca di qualcosa appartenente al tempo dei Mondi Perduti. Si è spinti non a contemplare ma a decifrare. Ho raccolto alcune congetture interpretative. Gli Archivisti sostengono trattarsi di una cronaca sullo Stato delle Cose negli anni tra la fine del secondo millennio e l’inizio del terzo, il periodo immediatamente antecedente la Prima Katastrofè Mediatica. Il mondo era ancora un labirinto ordito dagli uomini e destinato a essere decifrato dagli uomini; esisteva il Caos delle Città, la Memoria Scritta dei libri; sulle azioni del presente agivano i mostri del passato e le profezie del futuro. La cronaca non procede per allegorie né per dispositivi simbolici: è piuttosto una raffigurazione mitopoietica (una trasposizione in mito attraverso figure) di tensioni e interrogativi allora incombenti. Il senso è nella forma stessa della cronaca: negli inviluppi sempre uguali e diversi, ossessivi e vacillanti, entro cui si accumulano segni e figure. Proprio perché fissata in questa forma la narrazione è cronaca: “La realtà appare disparata, contraddittoria, sparpagliata come è in realtà”, scriveva un anonimo di quella lontana stagione. Gli Archivisti Analisti avanzano una diversa congettura. Le tavole raffigurano un monologo (un delirio) sulla condizione umana, sul vivere quando la vita dei viventi sembrava disposta entro uno strano sdoppiamento. In ogni umano si credeva agissero due esseri: l’Uno sociale, costruito dalle norme e dalle convenzioni, e l’Altro (chiamato inconscio) con propri comportamenti, ricordi, ossessioni. Il ripetersi continuo dell’immagine di un antico mezzo di trasporto, l’aereo, fa pensare che la condizione del monologo fosse il volare. Una condizione sospesa, instabile che nell’impianto narrativo si fa flusso continuo, andamento circolare e indefinito, stavolte prospettive. L’Altro (l’inconscio) agisce a tradurre il monologo nelle maschere del proprio universo surreale: bestiarii antropomorfi e zoomorfi, fantasmi del sacro, ghirigori dell’assurdo e del grottesco, filigrane di ironia e allegrezza. Se posso anch’io avanzare una congettura interpretativa (da Addetto marginale agli Archivi, sezione cinema) credo che queste tavole raffigurino una mappa, il disegno (o il sogno) di una Città. Guardando le tavole si vede come i segni e le trame siano costruiti per ripresa, trascrizione, montaggio di segni e trame colti nell’archivio, soggettivo e senza tempo, delle Icone Espressive: si chiamavano quadri, affreschi, ma anche formelle votive, illustrazioni popolane, fumetti, cartoons, affiches, spot… So che nell’ultima metà del XX secolo le tecniche delle icone espressive avevano cercato di andare oltre il territorio della Pittura, muovendosi su tecniche e oggetti della nuova iconografia urbana: miti e riti, meccanismi e rovine, o addirittura invadendo la città: graffiti su case e cose, installazioni-eventi in strade e luoghi. L’anonimo artefice rovescia il procedimento. Tutto il mondo dell’immaginario iconico a lui presente: tradizione e contemporaneità, musei e strade, realtà e sogno, torna nella pittura, la pittura torna sulla tela, la tela rientra nella cornice. Così i segni costituiscono la mappa di una città dell’immaginario figurativo. Una città dove ogni visitatore può aggirarsi a cercare le grandi icone di etimologia riconoscibile ma resa subito remota da accumuli di immediata espressività e diversa cronologia; può fermarsi alla visione parziale di straniati frammenti senza apparenti coordinate; può perdersi negli intrecci di un paesaggio affabulatorio, dove si muovono ombre di arcaiche leggende in fotogrammi: Caligaris, Mabuse, Dark Lady, ma anche Fratelli Marx e Streghe dell’Est e cani andalusi. La città dell’immaginario è anche la città della memoria. La memoria è altro dalla conoscenza del passato, archiviazione e catalogazione. Solo la memoria induce l’immaginazione del nuovo racconto. Mi guardo intorno: le Torri di Fuoco, le Tigri Trasparenti, il cielo di cristalli liquidi su cui scorrono le immagini live dai mille mondi della federazione… Mi tornano alla mente (e non so fare a meno di scriverle ancora una volta) le parole che antichi rapsodi, Philip Dick e Ridley Scott, misero sulla bocca di un androide: “Ho visto cose che voi umani nemmeno potete immaginare. Ho visto navi da guerra in fiamme al largo dei bastioni di Orione; ho visto il Raggio tagliare l’oscurità davanti alle porte di Andromeda… E tutto questo è destinato a svanire, come lacrime nella pioggia”.